Ebbene sì, l’ho fatto. Ho ceduto al fascino démodé della carta stampata, ho scritto un libro. Di geologia. Sulle rocce alpine.
Apparentemente, quanto di più banale si possa immaginare. Ma mi era necessario per offrirmi in qualche modo ai tanti amici che ho portato in giro per le montagne, o che mi hanno sopportato durante le escursioni. Ed anche per confrontarmi con i geologi che mi hanno fatto gioire e soffrire lungo tutti questi anni. Gioire per la genialità delle ricerche, delle interpretazioni, degli scenari proposti. Soffrire per la loro difficoltà a comunicare, a proporsi culturalmente ad un pubblico non specialistico.
Ho avuto voglia di dire che la geologia alpina è ricchezza culturale. Che usa e propone una prospettiva temporale originale e rilassante. Che è profondamente radicata negli oggetti del territorio, della civiltà alpina. Ho voluto tradurre in linguaggio pedestre concetti apparentemente complicati, mettendo le faglie mioceniche a fare palestre di arrampicata ed a costruire castelli medievali ben isolati sulle loro rocche a picco, dicendo che il metagabbro a smaragdite è piaciuto all’incisore neolitico di coppelle, dimostrando che i massi erratici di granito, ben squadrati, fanno comodo a chi costruisce villaggi nel paese dove affiora solo l’inaffidabile serpentino.
Ho invece detto niente dei dissesti, delle alluvioni, della protezione civile. Basta con l’equazione geologia uguale disastro.
E poi ho voluto farla finita con il pennidico e l’austroalpino, con l’ultraelvetico e il subbrianzonese. Nomenclature ancora utili in certi ambiti specialistici, ma da dimenticare quando si parla con il compagno di gita, a cui invece potrebbe interessare se la roccia è buona per piantarci un chiodo, o se si possono trovare dei fossili.
Queste cose secondo me vanno dette anche per iscritto. In un libro. Perché si possano leggere nei momenti di totale relax, nella natura all’ombra tenue di un larice, o nella poltrona di casa accanto alla finestra, aspettando che la pioggia finisca.
— Francesco Prinetti